domenica 21 agosto 2011

LA DIGNITA' DELL'ANZIANO

La dignità dell’anziano

Evitiamo che l’anziano finisca con il trovarsi in una situazione di solitudine e di umiliazione. Tutte le persone devono essere trattate con rispetto e dignità, tuttavia ciò è ancor più vero per quanto riguarda l’anziano.

La “grande crisi” che stiamo attraversando, crisi non solo economica ma anche morale, civile e sociale, ha colpito profondamente anche la famiglia e la sua organizzazione; essa ci impone di affrontare adeguatamente il problema della qualità della vita dell’anziano.

La soluzione che si intravede è quella di utilizzare i tanti paesini, comuni e frazioni così numerosi in Italia e dai quali la maggior parte di noi proviene per effetto della emigrazione interna conseguente allo sviluppo industriale del secondo dopoguerra, come residenze per anziani. Ci sono tutte le condizioni perché questo progetto possa essere realizzato nel modo più vantaggioso.

E’ sotto gli occhi di tutti lo stato di abbandono urbanistico in cui sono venuti a trovarsi tanti piccoli centri abitati spesso ricchi di storia e di bellezze artistiche. Tali centri erano un tempo formati non solo da case di abitazione ma anche da botteghe artigianali e/o artistiche, vere e proprie scuole, dove si apprendevano i mestieri e le arti.

Ebbene, tali centri storici sono spesso abbandonati e si trovano in uno stato di degrado. Perché non recuperarli come residenze per anziani ed anche per altre finalità sociali quali fornire le abitazioni popolari a quanti si trovano senza casa? E’ evidente che da un punto di vista economico l’operazione si presenta subito come più vantaggiosa rispetto a quanto si fa oggi e cioè la costruzione di edifici spesso in ambito cittadino. I vantaggi dell’alternativa proposta sono numerosi, alcuni di natura economica ed altri aventi una rilevanza morale e civile. Ad esempio, rivitalizzando tutti questi piccoli centri in gran parte abbandonati o degradati, migliorerebbe di molto la bellezza della nostra Italia. Diceva Carlo Bo che la vera Italia è quella dei paesini. Tali paesini sono distribuiti armoniosamente nel proprio territorio. Pensate, al contrario, a quanto squallido è il trasferimento dell’anziano nelle cosiddette “case di riposo”, vere anticamere della morte dove non è certo possibile rivivere e ripensare il proprio vissuto, mancando le persone che con l’anziano hanno condiviso le principali esperienze di vita. A ben vedere, sembra proprio che i nostri paesini, veri centri di autogoverno, siano stati pensati proprio per onorare le vicende umane dei loro abitanti. Questo è riconosciuto anche da stranieri. Ad esempio in California, recentemente, qualcuno ha dichiarato che il luogo ideale per passare la vecchiaia è la Regione Marche in Italia.

Ricordiamo, a questo proposito, la seguente saggia asserzione: “quando la strada intrapresa è sbagliata, il modo per andare avanti è quello di tornare indietro”.

Ecco, l’impressione che abbiamo in tanti è quella che abbiamo intrapreso una strada sbagliata; fermiamoci e ritorniamo sui nostri passi.

Il paesino era una grande comunità fatta di parenti, amici, piccoli operatori economici, artigiani ecc. Ricordiamo ancora l’animazione che prendeva tutti il giorno del mercato, i carri dei contadini, gli animali da cortile, le derrate agricole e tutti i piccoli mercanti che fornivano i beni necessari alla persona ed alla casa. Tali mercati erano anche l’occasione per incontrare e salutare amici. Gli incontri avvenivano nel mercato stesso o in piazza o all’osteria o in trattoria o in qualche piccolo bar. Ecco, non occorre molto per creare una comunità di appartenenza: una chiesa, un monastero o altro luogo di culto, un mercato, le botteghe artigianali dove, guardando attraverso i vetri da fuori, si poteva vedere l’artigiano al lavoro con i suoi apprendisti. Andare a riparare le scarpe dal calzolaio voleva dire anche fare due chiacchiere con lui mentre lui, seduta stante, le riparava.

Quanti oggi impiegano il loro tempo libero per andare a pescare e alcuni, i più fortunati, per coltivare ad orto un pezzo di terreno? Ebbene tutto ciò sarebbe possibile in un paesino: coltivare l’orto, andare a pescare in numerosi laghetti e fiumiciattoli e, naturalmente, girare per le campagne per salutare amici o comperare prodotti agricoli. Tanto basta fortunatamente a molti per essere felici. La dignità della persona richiede che la vita della persona non passi inosservata o, peggio, venga esclusa da quella degli altri membri della comunità. Allora l’anziano, che è testimone di tante esperienze e il cui compito è quello di trasmettere alle nuove generazioni gli insegnamenti necessari per affrontare le difficoltà della vita, troverebbe, in detto ambito, il luogo giusto per sentirsi ancora utile e parte di una comunità alla quale lui sente la necessità, come tutti, di dare il suo contributo di saggezza e di esperienza. Non credo che sia difficile investire i capitali destinati alla costruzione di case popolari, o alla formazione professionale, o alla promozione turistica, in tale progetto. Quanti paesini potrebbero accogliere musei di storia contadina e/o artigianato? Perché non portare i ragazzi in età scolastica a scoprire l’eredità culturale che tali centri potrebbero esprimere? Un centro ripopolato da anziani dovrebbe necessariamente essere adattato alle necessità di questi; quindi luoghi di incontro, di assistenza sanitaria, di cultura, un ufficio postale, una biblioteca, un cinema, e come detto musei di storia del lavoro. Tutto questo darebbe un contributo anche ai residenti non anziani i quali vedrebbero aumentare tutta una serie di servizi non esistenti.

I paesini per anziani potrebbero essere anche un’ottima opportunità economica e di investimento. Ad esempio le case ristrutturate, di diversa dimensione, potrebbero essere cedute a chi sente l’avanzare degli anni e teme la solitudine o l’abbandono nella forma della cessione della nuda proprietà. Cioè l’esborso finanziario sarebbe limitato a una parte del valore pieno dell’immobile. Questo potrebbe essere gradito a chi possiede dei capitali oggi, non sufficienti per comperare la piena proprietà di un’abitazione, cosa questa che avverrebbe nel tempo, quando ne avrà bisogno poiché, come è noto, la nuda proprietà si unisce all’usufrutto con la fine dei diritti dell’usufruttuario. Quindi un’assicurazione ragionata per la propria vecchiaia. In questo mercato dell’acquisto o della vendita della nuda proprietà potrebbero attivarsi in modo vantaggioso sia amministrazioni pubbliche sia aziende di credito aventi connotazioni di banche locali, sia società assicurative, immobiliari nonché imprese di costruzione. Altre opportunità economiche sorgerebbero da altri prodotti che in tale contesto troverebbero possibilità di piena applicazione e precisamente:

  • adottare un anziano: cioè chi ha un’abitazione sufficientemente ampia ed ha già in famiglia qualche anziano potrebbe trarre un grosso vantaggio economico e un grande sostegno morale dall’accogliere nella propria famiglia e nella propria abitazione un'altra persona. In tal modo si ridurrebbero i costi per tutti, la famiglia ospitante vedrebbe incrementate le proprie entrate con la pensione dell’anziano acquisito e migliorerebbe la qualità della vita dell’anziano della famiglia poiché questo potrebbe farsi compagnia con l’anziano acquisito. Inoltre tutti i servizi di pulizia di assistenza ecc. verrebbero ridotti perché non varierebbero in proporzione al numero di anziani da accudire.

  • un’altra attività che potrebbe sorgere e svilupparsi in tale contesto è quella di società di servizi per anziani, cioè dei centri dove è possibile rivolgersi per problemi di assistenza alla persona non solo medica ma anche amministrativa, per manutenzione della casa di abitazione ecc. ecc.

Naturalmente, per poter svolgere questa delicata e nobile funzione lavorativa di assistenza agli anziani, di manutenzione delle loro abitazioni e, soprattutto, quella di accogliere nella propria famiglia un altro anziano, sono richiesti requisiti morali e professionali adeguati che vanno accertati e certificati da parte da apposite strutture pubbliche.

Per quanto riguardo l’adozione di un anziano si veda il lavoro riportato nel volume del Prof. Attilio Giampaoli “undicesima edizione 2010 - L’Asterisco di Urbino” - “Per un’armonia dell’economia”, alla pag. 95 e seguenti.

Di Armida Sartori e di Stefano Lonzi


LA CULTURA ARTIGIANALE: L'ARTIGIANATO CI SALVERA'

La cultura artigianale, ovvero l’artigianato ci salverà

Come è noto ogni arte o mestiere determina un modo di agire e di pensare particolare del lavoratore in esso impegnato. In tempi di grande smarrimento, come l’attuale, dove sembra siano venuti meno i riferimenti valoriali alla base delle relazioni sociali, ritengo importante verificare il contributo che le varie culture espresse dal mondo del lavoro possono apportare alla soluzione dei problemi attuali.

In questo scritto mi soffermerò su quella che a mio parere è la cultura artigianale ed i valori da essa espressi. A me sembra che il lavoro dell’artigiano abbia lasciato nel tempo un’eredità culturale molto importante poiché essa si basa da un lato sulla piena realizzazione e valorizzazione del lavoratore e, dall’altro, favorisce l’acquisizione della responsabilità sociale e conseguentemente lo sviluppo civile delle varie comunità. Un particolare rilievo assume a mio giudizio la cultura artigianale nella educazione non solo professionale, ma anche civile, del lavoratore. Tutto questo a motivo della “onorabilità” collegata al proprio lavoro; aspetto questo che determina nel tempo un continuo impegno a migliorare la propria professionalità ed a puntare su prodotti e servizi di qualità sempre più elevata. La remunerazione dell’artigiano avviene non solo attraverso il denaro ma soprattutto attraverso il riconoscimento sociale del lavoro da lui svolto. Tutto ciò avviene anche per il fatto che il frutto del suo lavoro è visibile e pertanto la qualità del lavoro svolto viene più facilmente riconosciuta rispetto ad altre attività lavorative.

Questo determina una caratteristica molto importante nello svolgimento del proprio lavoro e cioè una capacità autocritica, che è quella di interrogarsi continuamente, soprattutto di fronte ad insuccessi e nei momenti difficili, per capire che cosa deve fare o non deve più fare per migliorare i proprio prodotti e i propri servizi.

Quando la via presa è sbagliata il modo corretto per procedere è quello di tornare indietro. Non sembra anche a voi che ci siamo inoltrati in una jungla dove il disordine economico e civile regna sovrano? Non è sempre stato così. Molti di noi hanno viva la memoria degli insegnamenti ricevuti dal padre artigiano, insegnamenti sui quali è opportuno tornare a riflettere per vedere di ritrovare la strada perduta, l’unica che ci può portare a un reale sviluppo economico e civile.

Chi nel proprio lavoro è attento soprattutto alla qualità del medesimo, come ad esempio i genitori, gli scienziati, gli artisti, e gli artigiani di cui stiamo parlando, è portato a riflettere maggiormente sull’attività da lui svolta e sui risultati ottenuti. Insomma il lavoro dell’artigiano favorisce l’acquisizione di quello spirito autocritico necessario per il buon esercizio delle attività umane, al fine di migliorare l’organizzazione dell’attività economica e della vita sociale.

Chi nello svolgimento della propria attività è particolarmente attento alla qualità del lavoro svolto è maggiormente predisposto a gestire gli insuccessi e quindi, quando è necessario, sa anche ricominciare da capo. Tuttavia come già scrissi in un mio precedente lavoro[1] vi sono a volte dei condizionamenti culturali che si frappongono ad una corretta gestione dell’errore.

Si pensi ad esempio al mito del progresso tecnologico e cioè a quella fiducia irrazionale che porta a sostenere che tutto ciò che è frutto della innovazione e delle ricerca tecnologica vada sempre accolto nella convinzione che ciò porterà ad un reale sviluppo economico e civile. Come sappiamo e possiamo constatare non è esattamente così. Si pensi ad esempio ai rischi connessi con la produzione di energia nelle centrali nucleari.

Per comprendere la struttura portante della cultura artigianale io partirei proprio dal seguente aspetto: l’artigiano con il suo lavoro si presenta alla comunità manifestando ad essa la sua intelligenza, creatività, professionalità, laboriosità e, in sostanza, la sua capacità di rendersi utile agli altri ed alla comunità di appartenenza. Ne deriva per l’artigiano il rispetto e la considerazione sociale di cui tutti abbiamo bisogno.

Il lavoro dell’artigiano è quindi in un certo senso un lavoro visibile che parla del lavoratore stesso, del suo impegno, della sua intelligenza e della sua volontà. Non è quindi un lavoro alienato; egli non delega ad altri la gestione della sua capacità lavorativa.

Dell’attività lavorativa svolge personalmente tutti gli aspetti: la progettazione dell’attività da svolgere nonché l’esecuzione materiale del lavoro. Egli è al contempo imprenditore ed operaio. Ne deriva quindi uno sviluppo di una particolare sensibilità a quegli aspetti che hanno storicamente lacerato il mondo del lavoro e una particolare sensibilità a capire sia le esigenze di chi avvia un’attività di impresa, sia quelle di chi è chiamato come operaio al lavoro esecutivo. E’ in grado quindi di capire il contributo che al successo dell’attività economica può dare il lavoro intellettuale e il lavoro manuale ed anche la capacità di auto amministrarsi.

Essendo inoltre gestore soprattutto di se stesso e delle proprie risorse diviene sempre un buon amministratore e, quindi, un attento valutatore delle opportunità che le diverse situazioni economiche e sociali nelle quali viene a trovarsi possono offrirgli.

Questo suo atteggiamento nel cogliere le opportunità espresse dalle varie situazioni e soprattutto dalle situazioni difficili favorisce anche l’acquisizione da parte sua di una particolare sensibilità a cogliere le inefficienze amministrative delle istituzioni pubbliche. A ben riflettere potremmo dire che la cultura artigianale esprime una particolare impronta del tipo problem solving quanto mai necessaria in tempi di confusione e di grave crisi nelle relazioni economiche e sociali. A me sembra che l’artigiano possa essere oggi non solo un Maestro di Mestiere ma anche un Maestro di Vita. Il laboratorio artigianale è una vera e propria Scuola dove gli apprendisti vengono avviati alla maturazione umana, civile e professionale. Quale istituzione oggi può dire di assolvere a questa importante funzione senza gravare oltretutto sui conti della comunità? L’artigiano non solo non viene pagato per i suoi insegnamenti professionali ma non gode, a quanto mi risulta, nemmeno di alcuna agevolazione per quanto riguarda il costo dei contributi chiamato a versare a favore degli apprendisti ai quali sta insegnando il mestiere o l’arte. Ecco quindi alcune eredità che la cultura artigianale ha lasciato a nostro beneficio:

  1. affrontare i problemi e le difficoltà chiedendosi innanzitutto “dove ho sbagliato?”;
  2. fare attenzione ai disagi e alle difficoltà presenti nella propria comunità al fine di cogliere le opportunità di inserimento lavorativo da esse provocate;
  3. investire continuamente nella propria professionalità (mi ricordo un detto che sentivo sempre da piccolo: “impara l’arte e mettila da parte”);
  4. impiegare al meglio le proprie risorse lavorative abbandonando le attività non remunerative o non soddisfacenti e quindi ad abbandonare le impostazioni lavorative erronee;
  5. favorire una cultura economica in cui l’interesse e la libertà personale si conciliano con il bene comune;
  6. la trasmissione dei saperi di generazione in generazione con il corollario di valori e di esperienze vissute;
  7. la convinzione che si raccoglie ciò che si semina;
  8. la capacità di auto amministrarsi[2]. Essendo i suoi ricavi variabili egli è molto attento a non procurarsi dei costi fissi, da un lato, e dall’altro a migliorare il proprio impegno qualitativo e quantitativo nell’attività lavorativa. L’artigiano è inoltre un ricercatore: dal suo lavoro emergono importanti indicazioni di innovazione di processo e di prodotto. Poche altre attività assumono tutte queste connotazioni positive. Le uniche che mi sento di accostare sono quelle del ricercatore studioso e quella dell’imprenditore agricolo.
  9. il superamento della visione classista del mondo del lavoro tra sfruttati e sfruttatori;
  10. il rifiuto dell’arricchimento facile, senza sacrifico e senza professionalità come certa cultura mercantile e finanziaria basata sulle scommesse e sulle speculazioni producono;
  11. una particolare sensibilità a cogliere l’approssimarsi degli elementi delle crisi economiche e sociali e quindi il formarsi di una cultura della “auto assicurazione”. A tempi buoni seguiranno tempi cattivi dei quali occorrerà farsi carico preventivamente. Ritengo la cultura del risparmio un’altra caratteristica della cultura artigianale. L’artigiano è attento non solo ai problemi del presente ma anche alle dinamiche evolutive e quindi ai problemi che potrebbero sorgere in futuro. Se è così, come io ritengo, ditemi voi: quale altra istituzione religiosa, politica, amministrativa, scolastica, è in grado di dare un contributo così importante alla formazione civile ed economica delle nuove generazioni?

Concludendo ritengo che la cultura artigianale abbia molti insegnamenti da dare all’uomo di oggi non solo per una armoniosa formazione delle nuove generazioni ma anche per uscire dal grave stato di confusione e crisi economica e sociale che stiamo attraversando.

Concludendo ritengo che l’artigianato ci salverà o potrà dare un grande contributo al superamento della crisi economica, sociale, civile e morale che stiamo attraversando.

Di Attilio Giampaoli

[1] Per un approfondimento si veda il quaderno n°16 “Un nuovo approccio alla teoria dei cicli economici: cultura ed economia”.

[2] Per un approfondimento si veda il quaderno n°9 “Imparare ad auto amministrarsi”.

UN NUOVO APPROCCIO ALLA TEORIA DEI CICLI ECONOMICI

Un nuovo approccio alla teoria dei cicli economici: cultura ed economia

Con questo lavoro intendo soffermare l’attenzione sulle relazioni esistenti tra modi di pensare, attività esercitate e fasi del ciclo economico. L’attività economica come è possibile osservare si evolve nel tempo con un susseguirsi di cicli economici. Un ciclo economico è caratterizzato da diverse situazioni o fasi. Indichiamo tali fasi con i termini :

  1. crisi;
  2. ripresa;
  3. buon andamento economico.

Nel corso della trattazione mi soffermerò in particolare sui fattori e sui comportamenti che porteranno al passaggio da una fase all’altra del ciclo.

Crisi

Iniziamo dalla crisi. L’illustrazione delle caratteristiche di un’economia in crisi e i disagi prodotti dalla stessa non richiede una particolare attenzione, essendo esse, attualmente, sotto gli occhi di tutti. In generale, comunque, dal punto di vista economico si può sostenere che la crisi porta ad una non ottimale utilizzazione delle risorse economiche e, in particolare, del fattore lavoro umano di cui ho scritto in una precedente riflessione[1]. Ci porremo invece altre domande, ad esempio:

  1. come mai di fronte alle difficoltà alcuni sono pronti a “rimboccarsi le maniche” mentre altri si aspettano di essere serviti da iniziative altrui? (si consideri la diffusa cultura dell’assistenzialismo)

  1. Quali sono i fattori che portano a dare l’avvio al superamento della stessa?

A me sembra che entrambe le domande possano trovare risposta nel tipo di cultura lavorativa che si è prodotta con il succedersi delle generazioni nei vari Territori. Ad esempio la cultura che noi marchigiani abbiamo ereditato dalle generazioni che ci hanno preceduto è una cultura del tipo: “le difficoltà vanno affrontate direttamente da chi le subisce andando alle radici delle medesime cogliendone le cause che le hanno determinate e intervenendo al fine rimuoverle o di evitarne il ripetersi”. Nella Terra dove la mezzadria, l’artigianato, San Francesco e il Rinascimento, hanno lasciato una loro impronta culturale l’atteggiamento ereditato dalle precedenti generazioni è improntato al senso di responsabilità sociale, al rispetto dell’ambiente e all’acquisizione delle professionalità necessarie per un buon governo dell’economia e della società. Un altro aspetto importante di quest’eredità culturale è la convinzione che molto spesso siamo noi stessi, coi nostri comportamenti, la causa delle difficoltà e degli squilibri che dobbiamo fronteggiare.

Le categorie di lavoratori indicate affrontavano le difficoltà della vita e del lavoro chiedendosi innanzi tutto: “dove ho sbagliato?” e, dovendo assicurare a se e alla propria famiglia la sopravvivenza, erano attivi nel prestare attenzione ai cambiamenti in corso al fine di poter provvedere alle proprie necessità. Questo atteggiamento viene alimentato e rafforzato proprio dalla crisi e questo mette in evidenza quella che potremmo chiamare la faccia buona della medesima e cioè i comportamenti virtuosi e le potenzialità che la crisi concorre a ripristinare.

Per quanto riguarda le potenzialità lavorative e di nuove iniziative economiche prodotte dalla crisi si è detto a parer mio troppo poco. Dunque, per chi è abituato a pensare con la propria testa come i soggetti economici di cui si è detto, la crisi è una straordinaria fucina di potenziali iniziative economiche. La domanda che continuamente affiora nella mente di chi è abituato a pensare con la propria testa e ad affrontare i problemi è la seguente: “vista la situazione di difficoltà del momento quali nuovi prodotti o quali nuovi servizi sarebbero utili alla gente?”. Ecco che il continuo porsi questa domanda porta alla nascita dell’idea imprenditoriale. Chi è abituato ad auto amministrarsi, a questo punto, conoscendo anche le proprie potenzialità e abilità lavorative, si porrà una seconda domanda: “sono io in grado di realizzare personalmente la suddetta idea imprenditoriale[2] ?” Se la risposta fosse negativa a ragione di qualche carenza di tipo professionale, il soggetto di cui stiamo parlando si pone una terza domanda: “cosa posso fare per acquisire le competenze professionali e di mestiere che non possiedo?”. Ecco quindi un altro aspetto positivo della crisi. Poiché la cultura corrente, figlia probabilmente fase del benessere del ciclo, determina atteggiamenti del tipo “è meglio l’uovo oggi che la gallina domani”, e cioè è portata a rimandare i problemi nel tempo, ad affrontarli superficialmente e/o parzialmente, ad assicurarli e soprattutto a cercare di scaricarli ad altri, avviene che la comodità che ispira tutti questi comportamenti, ritarda l’avvio del processo di superamento della crisi.

Se quanto detto è corretto, per chi è abituato a pensare con la propria testa la crisi diventa una grande opportunità per avviare nuove attività lavorative. Tuttavia non è sufficiente essere abituati a pensare con la propria testa, occorre anche aver sviluppato uno spirito autocritico ed un’umiltà che porta a determinare qual è stato il nostro ruolo nel determinare la crisi che stiamo subendo.

E’ questa una condizione molto limitante poiché tutti sappiamo quanto è difficile correggere i nostri errori e quanto invece sia diffusa l’abitudine di addossare sempre ad altri la responsabilità delle cose, dei fatti e delle circostanze spiacevoli. Insomma ci vuole umiltà, aspetto questo non certo favorito dall’eredità culturale lasciata dalla fase del benessere dell’economia.

Inoltre alcuni individui possono trarre dalle difficoltà la sfida e l’opportunità che gli consentano di dimostrare a se e agli altri le proprie capacità e la propria forza d’animo.

Anche per quanti non sono abituati a pensare con la propria testa e per quanti non sono stati educati ad affrontare le difficoltà la crisi può produrre effetti benefici nel senso che dovrebbe spingerli ad una maggiore serietà e ad un approfondimento dei propri modi di pensare e di agire, cioè la riflessione che costoro possono fare è la seguente: “mi trovo in difficoltà e non ho preso iniziative mie per evitare che ciò avvenisse”. Non pensate anche voi che questo potrebbe essere il necessario presupposto per modificare i propri comportamenti?

Se così fosse, allora la crisi sarà stata di benefico anche nel senso che spingerà altri individui a vivere e lavorare avendo maggior consapevolezza delle proprie azioni e quindi a migliorare l’ottimale utilizzo delle risorse. Costoro saranno obbligati a riflettere sulla seguente asserzione di cicerone : “nihil sine magno vita labore dedit mortalibus” (la vita non da nulla ai mortali senza grande sacrificio).

Anche sull’uso delle altre risorse (natura e capitali) la crisi può produrre degli insegnamenti nel senso che l’uso non sufficientemente utilitaristico delle suddette risorse va evitato, cioè, occorre chiudere le attività che si sono dimostrate distruttrici di risorse più che creative di ricchezza oppure svolte senza la professionalità necessaria.

Ripresa

Quanto detto può essere l’avvio della fase successiva del ciclo economico cioè quella della ripresa. Tuttavia i tempi del passaggio dalla prima fase del ciclo alla seconda non sono sempre gli stessi poiché sono influenzati grandemente dalla permanenza del modo di pensare che si è formato nella fase del benessere economico. Ritengo che tanto più forte e marcata è la cultura dell’assistenzialismo e delle comodità acquisita durante la fase del benessere economico tanto più duro sarà il passaggio dalla fase della crisi alla fase della ripresa. L’assistenzialismo è una malattia grave dell’economia; nasce dal dovere morale di far fronte a situazioni di disagio non accettabili dal punto di vista della coscienza civile e sociale dell’uomo di oggi. Tuttavia quando esso diventa il rimedio a tutti i mali in realtà si trasforma come nella causa di tutti i mali. I problemi non si risolvono con il denaro (soprattutto degli altri) ma si risolvono affrontandone le cause e mettendo in atto comportamenti che eliminino definitivamente le cause dei vari problemi. Non è diventando tutti statali che si risolvono i problemi. Alla fine non è lo Stato che paga ma siamo tutti noi. Ecco quindi che per pagare meno bisogna lavorare meglio e tutti, facendo le cose utili e evitando soprattutto noi stessi, con i nostri comportamenti, di essere la causa dei suddetti problemi.

La durata di transizione dalla fase della crisi alla fase della ripresa sarà tanto più breve quanto maggiore è la cultura al problem solving e del fai da te, come ad esempio avviene nella Regione Marche. Ecco quindi che, se quanto detto è ragionevole, emerge su cosa bisogna puntare per superare la crisi e per pervenire ad una reale ripresa dell’economia.

Nel caso della Regione Marche ritengo necessario partire rivalorizzando l’attività svolta nei laboratori artigianali, e nel contempo puntando sulla qualità dei prodotti e dei servizi prendendo le distanze il più possibile dalla cosiddetta economia dell’usa e getta. Oltretutto una politica economica finalizzata a valorizzare l’attività dei laboratori artigianali fornisce un contributo notevole in termini di benefici sociali: minore disoccupazione, attività di formazione non a carico dello Stato, conservazione e trasmissione delle conoscenze di mestiere acquisite.

Conseguentemente a quanto detto la ripresa è in qualche misura determinata da automatismi che la crisi stessa mette in movimento, ma è anche un fatto culturale al quale ci si può preparare per tempo orientando i mestieri e le professioni a raccogliere le cause degli squilibri esistenti e non limitarsi agli effetti delle medesime come fa ad esempio certa medicina che è più medicina dei sintomi che medicina delle cause. Occorre inoltre un rafforzamento morale inteso come impegno a cercare di dare il meglio di se e inteso come responsabilità sociale, cioè conciliazione tra gli interessi privati e il perseguimento del bene pubblico come base del proprio impegno lavorativo. Non può esserci una rinascita economica e civile senza una forte rinascita morale. Se è così la lotta alla crisi assume i connotati di una rinascita morale e culturale.

Buon andamento economico

E’ evidente che la ripresa porterà dei benefici nell’uso delle risorse e quindi al desiderato benessere. Tuttavia anche il benessere come la crisi sembra abbia due facce. Sembra cioè che il benessere protratto per lungo tempo porti ad una caduta di attenzione verso il futuro che si sta costruendo e conseguentemente ad una deresponsabilizzazione sociale. Non sembra anche a voi che il benessere è padre di figli poco piacevoli? :

  1. la comodità;
  2. l’egocentrismo;
  3. uno scarso impegno qualitativo nell’attività svolta;
  4. l’utilizzo dei risparmi creati con il proprio lavoro e di quelli accumulati precedentemente dai familiari.

La stagione del benessere determina caratteristiche comportamentali ben note. Innanzi tutto l’aumentato potere di acquisto che il benessere determina viene impiegato in consumi e non in risparmi. Vi è la diffusa convinzione infatti che se le cose vanno bene oggi andranno bene anche domani. Perché quindi non abbandonarsi alle comodità ed alle piacevolezze prodotte da un aumentato potere di spesa quando non si è disturbati da preoccupazioni particolari per il futuro?

Il fiume della cultura della comodità sfocia nella cultura del denaro. Il denaro diventa il parametro supremo metro di valutazione non solo delle merci e dei beni scambiati ma anche della persona (dimmi quanto guadagni e ti dirò quanto vali). Ne consegue l’aberrante mercificazione dell’essere umano e l’erronea convinzione che l’economia si regga sulla disponibilità di capitali piuttosto che sull’impegno lavorativo degli individui. Sul piano dei comportamenti civili, si rafforza il desiderio di acquisire ricchezza con giochi e scommesse quindi è il concetto che l’accumulo di ricchezze possa sorgere da un qualificato e prolungato impegno lavorativo, fonte di risparmi, che viene meno.

Si potrebbe anche sostenere che la cultura prodotta dall’economia del benessere si avvicini alla particolare cultura mercantile. Cultura questa molto diversa dalla cultura imprenditoriale dell’artigiano, del coltivatore diretto e del piccolo imprenditore. La cultura mercantile si può rendere bene con questa immagine: “sono bravo perché sono riuscito a vendere un bene del tutto inutile ad un alto prezzo”. Più alta è la differenza tra il prezzo realizzato dal mercante e il valore reale dei beni da lui ceduti più alta sarà la soddisfazione del mercante perché ciò starà a misurare la sua capacità mercantile. A questo proposito mi vengono in mente due espressioni della tradizione calabrese: “la fine normale della volpe è nel negozio del pellettiere” ed anche “i buoi si tengono per le corna, l’uomo onesto si tiene per mezzo della parola data”. Al contrario la cultura dell’artigiano, una particolare cultura imprenditoriale, mette grandemente in risalto la qualità dei beni costruiti e l’impegno lavorativo nonché la bravura tecnica da lui impiegata nel realizzarli.

Di fronte a cambiamenti che possono mettere in difficoltà la vita degli altri e delle future generazioni e che sarebbe possibile fronteggiare, troppa gente si chiede: “ma a me chi me lo fa fare?”. E’ chiaro che chi è superbo e orgoglioso farà fatica a porsi la domanda “dove ho sbagliato?” quando viene a trovarsi di fronte a difficoltà. Nella mia esperienza lavorativa e di ricercatore ho potuto constatare che le persone umili, cioè quelle disposte a riconoscere i propri errori, possono pervenire a traguardi di conoscenza e di professionalità straordinariamente elevati, anche se all’inizio del loro percorso formativo sono particolarmente fragili e impreparati. Al contrario, chi è molto dotato intellettualmente o possiede altre abilità finisce con l’essere risucchiato nella palude della propria superbia e del proprio orgoglio e pertanto non perverrà mai a livelli di eccellenza.

Conclusioni

La crisi è paragonabile ad una malattia infettiva la cui aggressione stimola la produzione di anticorpi da parte dell’organismo aggredito. Come ogni malattia infettiva essa può essere fronteggiata da un lato con comportamenti di vita corretti e dall’altro rafforzando le difese immunitarie (nel caso dell’economia essenzialmente educando le persone ad auto amministrarsi e a ricercare le cause delle difficoltà riflettendo soprattutto sulla relazione esistente tra il proprio modo di pensare e di agire e le cause stesse). Ne deriva che, alla domanda: “lei ritiene che usciremo dalle difficoltà del presente?”, la risposta sarà: “certamente, perché così avviene di norma. Tuttavia non si può nemmeno escludere che alla dura crisi possa seguirne un’altra e ciò a motivo dell’accresciuta complessità del sistema produttivo e tecnologico al quale siamo pervenuti. Pensiamo alle incertezze ed ai rischi, non tutti prevedibili e governabili, collegati alla produzione di energia nucleare”.

E’ evidente a tutti come l’economia, così come ogni altra costruzione, debba basarsi sulla qualità reale del prodotto e non su qualità apparenti o presunte.

L’economia governata dalla cultura delle speculazioni è un’economia che conosciamo fin troppo bene: è quella che ha portato alla gravissima crisi economica, sociale, civile e morale che stiamo attraversando. Tuttavia mi piace fare questa osservazione: i comportamenti furbi non solo non consentono di costruire un solido edificio sociale e portano a costruzioni precarie ma, a lungo andare, non portano vantaggi a nessuno, inclusi quanti coloro li mettono in atto. Perché il furbo possa trarre vantaggio dai suoi incivili comportamenti occorre che agisca in una società di persone oneste e laboriose; egli in tale situazione potrà arricchirsi sottraendo ad altri la ricchezza da essi prodotta. Tuttavia la furbizia è come una malattia contagiosa poiché sempre individui nel vedere premiato il comportamento incivile dei furbi rispetto a quanti si sono comportati correttamente, finirà con l’essere attratto anche lui dal modo di agire dei disonesti. Tuttavia vi è un limite all’espansione della cultura dei furbi. Quando ogni individuo si comporterà un po’ per ingordigia un po’ per autodifesa in modo da trarre il massimo beneficio dal lavoro e dai sacrifici altrui, allora non vi sarà più spazio per i comportamenti opportunistici, e ciò per la semplice ragione che pochi saranno i produttori di ricchezza e tanti saranno quelli che vorranno sedersi gratuitamente alla sua tavola. Insomma, la furbizia istituita a sistema comportamentale porta a non creare più nuova ricchezza, a sprecare risorse ed a rendere sempre più difficile la costruzione di una società civile nella quale noi e i nostri figli possiamo degnamente sperare di vivere.

Fatte queste osservazioni mi viene da chiedere: “chi è il responsabile della crisi?”. Per la gente, vista la cultura corrente sicuramente sono gli altri, o meglio qualcun altro che è particolarmente odioso, a causa dell’invidia che spesso influenza i giudizi e i comportamenti degli individui.

Sono di cultura socialista e ho quindi una visione della società basata sulla dignità, sul rispetto e sul riconoscimento sociale da dare ai lavoratori, tuttavia, come ogni altro lavoratore che si è impegnato da sempre per produrre ricchezza, risparmiarla ed utilizzarla per far fronte alle proprie necessità future gravando il meno possibile sull’assistenza sociale mi chiedo: “non esiste forse un comunismo o un socialismo dell’invidia?”. Una volta ho sentito dire da una persona che non si era mai impegnata ad acquisire la casa di abitazione contraendo come fanno la maggior parte delle persone un mutuo e sottoponendosi quindi a un risparmio forzoso ed ad un impegno lavorativo assillante che “tanto si sa che chi possiede la casa di abitazione, con quello che costano, non può essere che un evasore fiscale od uno che ha rubato ad altri dei soldi”. Che offesa all’onesto e serio lavoratore!!!

Questo fatto di cui riferisco mette in luce, a mio giudizio, la grave carenza culturale che è alla base della nostra educazione civile. Onoriamo quanti con il loro sacrificio hanno saputo provvedere alle proprie esigenze, a quelle della famiglia, gravando il meno possibile sulla comunità di appartenenza. Non possiamo considerare tutti i ricchi come se fossero dei ladri. E’ troppo comodo nascondersi dietro questa falsità per mascherare le propria inadempienze e/o fallimenti. Sul piano etico e morale ognuno di noi è responsabile per il contributo che potrebbe dare al bene comune e che non ha dato.

Di Attilio Giampaoli

[1] Per un approfondimento si veda il Quaderno n°15 “La disoccupazione: come contrastarla

[2] A questo proposito risulta utile l’approccio suggerito da Luca Pacioli, uno dei primi studiosi di economia aziendale, il quale suggerisce a quanti desiderano avviarsi all’attività mercantile di rispettare i seguenti assiomi:

1. la fatica nel perseguire legittimamente i propri obiettivi;

2. la sincerità nello svolgimento delle operazioni;

3. la capacità di “valutare e controllare” i risultati raggiunti;

4. l’umiltà di ammettere i propri errori;

5. il coraggio di assumersi le proprie responsabilità;

6. la “capacità di spendersi” dando così l’esempio agli altri;

7. la “giustizia” nel riconoscere che sul mercato coesistono interessi plurimi potenzialmente in conflitto.

COME EVITARE IL RIPETERSI DELLE CRISI

Come evitare il ripetersi delle crisi

La crisi si manifesta o sorge per il venir meno delle coerenze necessarie tra obiettivi risorse, processi (commerciali e produttivi), prodotti e mercati.

E’ chiaro che il monitoraggio continuo della gestione può rivelare per tempo gli squilibri in corso e quindi consentire i più appropriati interventi correttivi al fine di evitare che la crisi esploda.

Tale monitoraggio tende a verificare la fattibilità degli obiettivi perseguiti in rapporto alle risorse disponibili e a far emergere possibili rischi e minacce che possono perturbare i mercati, i processi e la disponibilità di risorse definita sia quantitativamente che qualitativamente. Si pensi ad esempio al rischio che un collaboratore insostituibile interrompa la propria collaborazione per collocare altrove la propria capacità lavorativa ed anche ad un macchinario che si è rotto e che non è possibile riparare in tempi brevi o sostituirlo con un altro.

Il monitoraggio della gestione è necessario anche per ricombinare, in tempo utile, l’attività aziendale in rapporto alle diverse opportunità che il mercato sta offrendo. Si può quindi sostenere che la crisi sorge anche per il concomitante effetto di un insufficiente monitoraggio degli sviluppi gestionali.

La domanda di fondo per una buona amministrazione di impresa è questa: “che cosa fare nel caso in cui….?”. Insomma la gestione d’impresa, e dei problemi in generale, richiede un continuo monitoraggio e una continua simulazione dei processi gestionali.

La gestione d’impresa e di ogni altro problema che può portare ad una crisi richiede in sostanza un monitoraggio continuo della evoluzione del fenomeno da gestire; una continua attenzione alle modifiche in corso negli scenari in cui il fenomeno da gestire si manifesta; una capacità di riorientamento strategico delle cose da farsi in rapporto alle sempre mutevoli situazioni.

Dalle crisi si potrà uscire con un nuovo paradigma gestionale nel quale gli obiettivi perseguiti, i processi di attuazione e le risorse disponibili, ritrovino la necessaria coerenza.

Poiché il monitoraggio di ciò che si sta facendo richiede un atto di volontà o di saggezza non sempre disponibili, ecco allora il valore salvifico della crisi la quale ci obbliga, spinti da necessità primarie, a ripensare ciò che stiamo facendo e, quindi ci dà la spinta necessaria per dare l’avvio a quei cambiamenti che altrimenti non penseremmo proprio di intraprendere.

L’abitudine a riflettere e a controllare continuamente i risultati di ciò che si sta facendo ha un effetto non solo nella prevenzione delle crisi ma anche sullo sviluppo della personalità. Con le suddette analisi si può conseguire un giusto livello di autostima, di fronte alla constatazione di risultati positivi conseguiti; ad una eliminazione dell’autoesaltazione quando essa non è sostenuta da alcun risultato effettivo, ma anche dallo sviluppo di una capacità di autocritica la quale richiede che ognuno venga messo di fronte ai risultati negativi delle decisioni che lui stesso ha liberamente preso. Sviluppare una corretta autostima, un’accentuata capacità autocritica[1] e combattere le autoesaltazioni non aventi alcun fondamento reale, sono tutti aspetti questi che da un lato migliorano la nostra personalità e, dall’altro, ci consentono di ottenere successo dalle iniziative che vogliamo intraprendere (migliorano la nostra professionalità).

In ogni caso per evitare ed anche per uscire dalle crisi occorre un’attività continua di monitoraggio con la quale vengono messi in evidenza anche i punti forti, i punti deboli, i rischi e le potenzialità (ad esempio la sottoutilizzazione della capacità produttiva nonché la mancata utilizzazione delle professionalità a disposizione) possedute dall’impresa. Inoltre un grande rilievo ha la capacità amministrativa, gestionale, e di comprensione dei cambiamenti in corso nella società e nell’economia da parte dell’imprenditore. Tuttavia su alcuni di questi aspetti, mi riferisco alla capacità amministrativa ed a quella di riorientamento strategico, è possibile incrementare le capacità dell’imprenditore fornendo ad esso la formazione necessaria, aspetto questo al quale provvede da tempo, in appositi corsi individuali, Terre di Confine[2].

In estrema sintesi mi sembra si possa sostenere che le crisi si manifestano quando vi è poca consapevolezza dei fatti da amministrare e delle situazioni da gestire ed anche quando si riflette poco sul da farsi.

Di Attilio Giampaoli

[1] Confronta il Quaderno n°8 “Imparare ad auto amministrarsi”.

[2] Per ulteriori approfondimenti consultare anche i quaderni n°8 su come imparare ad auto-amministrarsi e il n°5 sul tema relativo alla valutazione delle nuove iniziative economiche, dello stesso autore. Si veda anche, Per un’armonia dell’economia, Asterisco, Urbino, 2010, pag. 228.

POTERE E LIBERTA'

Potere e libertà

Vi sono tante forme di potere e non tutte sono utili o comunque compatibili con gli interessi degli amministrati; a volte alcune forme di potere sono addirittura condizionanti la libera espressione della volontà degli amministrati. Partendo da questa constatazione ho deciso di mettere per iscritto le mie prime riflessioni sull’argomento in questione e le mie indicazioni per superare gli ostacoli che una cattiva concezione del potere frappone, non solo alla libertà degli individui, ma anche ad un giusto ed efficace sviluppo economico e civile. Non vi è dubbio infatti che ai fini dello sviluppo economico occorra anche una società ben ordinata, rispettosa delle libertà individuali, e basata sulla giustizia e sul bene comune. Il potere inutile e non necessario è dannoso per lo sviluppo civile ed economico. Al fine di evitare di favorire quanti intendono sfruttare il prossimo ai fini dei propri interessi personali, occorre favorire al massimo sia il decentramento amministrativo sia la capacità di auto amministrarsi[1]. Il potere non necessario possiamo trovarlo sia in una organizzazione sociale eccessivamente basata sulla delega, sia nell’intreccio eccessivo di norme e regolamenti che presiedono allo svolgimento delle varie attività.

Ritengo che alcune importanti riflessioni vadano fatte su questo argomento. Come conciliare l’esercizio del potere decisionale con i processi che favoriscono lo sviluppo economico e civile?

Alla base di quanto asserito vi è la convinzione che il migliore amministratore è l’individuo direttamente interessato al problema da gestire, e questo non solo perché l’individuo in questione è maggiormente consapevole della natura e della complessità del problema da affrontare, ma anche perché è il maggior interessato alla miglior soluzione del medesimo. Se inoltre consideriamo l’opportunità di ricondurre sia i benefici che gli oneri derivanti dagli interventi decisori agli amministratori, allora si saranno creati tutti i presupposti per la migliore amministrazione. Ciò avviene quando le figure dell’amministrato e dell’amministratore coincidono il più possibile. Si tratta insomma di favorire al massimo il decentramento amministrativo e l’auto amministrazione anche perché, come è noto, la maggior parte delle cause degli squilibri che occorre regolamentare sorgono da comportamenti erronei assunti da parte di chi tali squilibri sta subendo. Il maggior costo derivante dal decentramento amministrativo per effetto del venir meno delle economie di scala, è sicuramente compensato dalla migliore qualità dell’amministrazione ottenibile.

Insomma, tra l’amministrato e l’amministratore non andrebbe inserita una figura di intermediario. L’amministrato deve essere il più possibile amministratore di se stesso. Ritengo che non siano sufficienti delle buone norme, degli organi di controllo e un’educazione civile, per fronteggiare l’enorme spinta, frutto della dominante cultura egocentrica, ad appropriarsi di spazi di potere al fine di condizionare la vita degli altri al proprio interesse immediato e materiale. Gli esempi sul cattivo uso del potere sono sotto gli occhi di tutti. Anche se ritengo si possa fare molto con un’educazione alla responsabilità sociale ed all’impegno personale, sono tuttavia del parere che occorrano interventi più radicali per riportare l’esercizio del potere alla sua funzione più corretta, e cioè consentire e favorire lo sviluppo economico e la convivenza civile.

Con un’immagine ripeto il concetto espresso: una migliore e più efficace organizzazione dei processi decisionali si può ottenere più facilmente eliminando le strutture di potere non necessarie mediante il decentramento amministrativo e l’auto amministrazione piuttosto che migliorando le procedure amministrative e l’organizzazione della pubblica amministrazione.

La relazione tra potere e sviluppo civile ed economico si è manifestata in alcuni casi in tutta la sua chiarezza. Si pensi al comunismo di Stato il quale, ai fini del perseguimento di un presunto sviluppo civile basato sulla giustizia sociale, ha preteso, e di fatto ha svolto, un controllo totale dei comportamenti e delle decisioni degli individui, non solo nella sfera delle relazioni economiche ma anche private.

Sotto l’aspetto economico tale sistema di potere assoluto e centralistico ha dimostrato di essere fallimentare. Limitare e condizionare le libere scelte individuali non fa certo bene all’economia poiché indebolisce e distorce l’impulso naturale che vi è in ogni individuo ad esprimere se stesso nelle relazioni sociali ed a rendersi utile, seguendo la propria coscienza e i propri talenti, al perseguimento del bene comune.

Ecco quindi un primo appunto. La libertà di agire è un riconoscimento della dignità dell’individuo ed anche un modo per utilizzare al meglio le sue potenzialità. Nessuno meglio del singolo individuo sa che cosa dovrebbe o potrebbe fare nelle situazioni in cui viene a trovarsi. Quanto asserito non significa che l’autorità pubblica non debba farsi carico di regolamentare le azioni dei singoli individui quando è necessario.

Se ogni individuo e ogni Comunità diventano amministratori di se stessi, ciò impedirà all’esercito dei furbi di sfruttare, questa o quella norma, questa o quella relazione, per trarne un vantaggio personale. Quando le decisioni vengono prese dai principali interessati sarà difficile inserirsi in modo tale da mettere in atto comportamenti in danno dei medesimi con vantaggio proprio.

Riassumendo, la formula della massima coincidenza tra amministrati e amministratori porta al decentramento amministrativo. Il decentramento amministrativo comporta numerosi vantaggi; innanzitutto chi decide è anche l’individuo più interessato alla decisione da prendere e, inoltre, le decisioni vengono prese da chi ha la massima consapevolezza dei problemi. Tuttavia l’aspetto più importante è quello che il costo delle iniziative da prendere graverà interamente sull’individuo interessato alle azioni da intraprendere. Dovendo pagare il prezzo di decisioni sbagliate, essi saranno molto attenti nel valutare le decisioni da prendere. Tuttavia, quando lo riterrà necessario e conveniente, egli potrà sempre liberamente rivolgersi, dietro compenso, ad esperti e specialisti, al fine di integrare le conoscenze necessarie da lui non possedute.

Ecco che appare un quadro organizzativo completamente diverso da quello nel quale le decisioni vengono delegate istituzionalmente o liberamente ad altri. In quest’ultima situazione si da’ l’avvio ad un complesso di regole, norme e relazioni, che favoriscono l’inserimento nei processi decisionali di persone estranee alla soluzione dei problemi, le quali agiranno al solo scopo di trarre un vantaggio personale nello stesso modo in cui le acque stagnanti favoriscono il proliferare delle zanzare. Ecco quindi, mi sembra evidente, la superiorità del sistema amministrativo-organizzativo basato sul decentramento e sull’autogoverno massimi possibili, rispetto ai meccanismi di delega e di intermediazione. Il risultato che ne deriverebbe sarebbe un reale sviluppo civile ed economico.

Concludendo la mia indicazione è quella di favorire al massimo i processi di decentramento, facendo attenzione tuttavia a non inquinare tale principio con reti di salvataggio di tipo assistenzialistico, le quali porterebbero ad una deresponsabilizzazione. Per quanto riguarda l’assistenzialismo, cultura oggi molto diffusa, ritengo che esso vada ricondotto nell’ambito delle responsabilità che ogni individuo appartenente ad una Comunità deve assumersi. Ciò detto ritengo che certe situazioni cui gli individui non sono in grado di provvedere a se stessi possano contare sul sostegno della Comunità di appartenenza o della Comunità più ampia in cui quest’ultima è inserita, sempre che queste siano in grado di poter apportare il proprio aiuto solidaristico.

Di Attilio Giampaoli

[1] Per un approfondimento si veda il quaderno n°9 “Imparare ad auto amministrarsi”.

LA DISOCCUPAZIONE: COME CONTRASTARLA

La disoccupazione: come contrastarla

E’ evidente a tutti come la disoccupazione sia un chiaro segnale di una organizzazione non corretta dell’economia, in quanto lascia delle importanti risorse lavorative inutilizzate. Anche sul piano sociale la disoccupazione è un segnale di inadeguata organizzazione che determina un impatto negativo sulla qualità della vita e che comporta il sostenimento di costi sociali.

Si ritiene normalmente che la disoccupazione vada combattuta con il cosiddetto sviluppo economico cioè aumentando le attività produttive e, quindi, assorbendo in tali attività la manodopera disoccupata. Come vedremo, tale asserzione, pur mantenendo un fondamento di verità, è del tutto inadeguata a spiegare le dinamiche del mercato del lavoro. Innanzi tutto una precisazione: il disoccupato non è colui che non riceve, a fronte della propria attività lavorativa, un salario o un compenso monetario. Se così fosse dovremmo considerare disoccupate tutte le casalinghe che dedicano le loro energie lavorative all’accudimento dei familiari, alla gestione dell’abitazione, ed anche i cosiddetti volontari, cioè tutti coloro che intervengono con sacrificio personale, liberamente deciso, ad alleviare i disagi di altri, incapaci di provvedere a se stessi e che non beneficiano dell’assistenza pubblica. La disoccupazione può essere contrastata in vari modi:

  • impiegare il disoccupato in attività socialmente utili[1];

  • riducendo i tempi di lavoro dei lavoratori dipendenti, in modo tale da costringere quanti esercitano attività economica ad utilizzare anche altri lavoratori (è questo lo slogan degli anni della contestazione “lavorare tutti lavorare meno, lavorare meno lavorare tutti” ma, si diceva allora, mantenendo invariati i salari. Questa proposta è ad evidenza inaccettabile dal punto di vista dell’economia delle imprese poiché porterebbe a dei risultati economici negativi per le imprese. Ogni economia richiede che le attività economiche in essa svolte, tutte, siano produttive in termini di produzione di ricchezza. Come potrebbe un’impresa assumere nuovi dipendenti, il cui costo si aggiungerebbe a quelli precedenti, senza incrementi produttivi e senza pervenire a risultati economici negativi?;

  • incentivare le iniziative economiche a più alta intensità di costo del lavoro sul valore della produzione (se trattasi di aziende di produzione) o sul valore delle merci commercializzate (se trattasi di impresa commerciale);

  • passare velocemente dall’economia dell’“usa e getta” ad una economia di qualità basata sulla qualità dei prodotti, in modo da poter ridare occupazione all’esercito dei riparatori, un settore dell’attività economica che è stato abbandonato con grave danno per l’occupazione, per l’economia, per la trasmissione dei saperi e per lo sviluppo di innovazioni di processo e di prodotto. Comune di Urbino rifletti! Aumentando l’affitto per un locale di tua proprietà hai allontanato l’ultimo dei calzolai che in esso esercitava la propria attività con grave danno per la Città, “capitale morale” delle Marche e per i suoi cittadini;

  • nel determinare gli aumenti dei salari considerare l’impatto di questi sullo sviluppo della domanda di lavoro. Tale politica aumenterebbe le opportunità per avviare vantaggiosamente nuove iniziative economiche e la domanda di lavoro;

  • migliorare la formazione professionale. E’ importante che il mondo delle imprese possa trovare sul mercato del lavoro le competenze professionali e tecniche di cui esso ha necessità. Ecco quindi l’importanza di monitorare con attenzione le professionalità richieste dal mondo del lavoro mettendo in evidenza soprattutto quelle che non trovano accoglimento. Sarà poi compito delle scuole e delle Università fornire la formazione necessaria;

  • diventare datori di lavoro di se stessi. Favorire cioè il più possibile l’avvio di nuove iniziative economiche anche se a livello di piccole e piccolissime imprese;

  • Sviluppare una cultura imprenditoriale, presupposto necessario perché quanti hanno le potenzialità possano avviare una nuova iniziativa economica. Ci vuole una vera e propria rivoluzione per pervenire ad una cultura imprenditoriale. Innanzi tutto occorre educare ad affrontare le difficoltà, a comprendere le situazioni ed a risolvere i problemi. La domanda di fondo che deve porsi continuamente chi è interessato ad avviare un’attività imprenditoriale è questa: quale prodotto o quale servizio sarebbe opportuno ci fosse per far fronte alle difficoltà nelle quali io ed altri ci stiamo in questo momento trovando? L’idea imprenditoriale può sorgere anche in altro modo, e cioè viaggiando ed osservando con attenzione, il modo di vivere e l’offerta di servizi e di prodotti esistenti in altri Paesi. Sempre sul piano culturale è importante tenere sempre presente che la ricchezza nasce dal lavoro e cioè dal sacrificio e che non si superano le crisi economiche, sociali e occupazionali con il gioco delle tre carte, ovvero con un’economia delle scommesse e delle speculazioni. E’ importante insistere sul concetto che le situazioni nelle quali ci troviamo sono quasi sempre riconducibili a noi stessi, a qualche nostro comportamento dal quale ne deriveranno conseguenze positive o negative. Si dice in Calabria, da lungo tempo, che “non c’è povertà senza difetto”;

  • puntare sul settore primario dell’economia cioè l’agricoltura e sulla lavorazione di prodotti della terra, in particolare, sui prodotti di qualità quali quelli ottenibili con l’agricoltura biologica. Questo settore di attività è ad alta intensità di lavoro umano, determina benefici non solo per l’attività di produzione e commercializzazione dei prodotti della terra, ma anche in termini di salute per la popolazione e di valorizzazione e di conservazione dell’ambiente (benefici esterni all’attività svolta) che tanta parte hanno nel favorire il turismo di oggi nelle nostre Regioni;

  • puntare sulle energie rinnovabili poiché questo consentirebbe di dare lavoro a tante piccole imprese che producono la strumentazione necessaria e a quanti dovranno provvedere alla loro manutenzione. Inoltre la produzione di energia da fonti rinnovabili consente a lungo andare di ridurre i costi di produzione di tutte le altre imprese e quindi migliorandone la competitività ne aumenterà la domanda di lavoro;

  • investimenti pubblici nelle infrastrutture. La politica degli investimenti pubblici nelle infrastrutture è, ad evidenza, una politica anticiclica; va cioè effettuata nei momenti di crisi economica poiché, da un lato, i costi dei suddetti investimenti sarà inferiore e, dall’altro, si attiverà a seguito della spesa pubblica una rivitalizzazione dell’economia in generale. Occorre naturalmente che tale spesa pubblica venga diretta ad investimenti che producano un reale beneficio all’organizzazione della vita civile e della qualità della vita tenendo conto delle esigenze delle attuali e delle future generazioni. Quando i suddetti investimenti sono stati valutati correttamente si avrà per effetto dei medesimi una diminuzione futura dei costi sociali e/o un aumento delle entrate per gli Enti Pubblici che i suddetti investimenti hanno effettuato;

  • incentivare al massimo l’attività artigianale poiché, essa, consente di avviare alle attività produttive numerosi giovani fornendo ad essi la formazione professionale necessaria senza gravare sui costi pubblici e migliorando la cultura del problem solving, tipica del mondo artigianale.

Concludendo, la disoccupazione, per essere affrontata, richiede una rivoluzione culturale rispetto al modo di pensare odierno. La ricchezza nasce dal lavoro; occorre quindi impiegare tutta la capacità lavorativa esistente, sia in termini quantitativi che qualitativi, intendendo per potenzialità qualitative lo sviluppo delle professionalità. Lo sviluppo della professionalità si realizza con il lavoro stesso in certi mestieri quali quelli artigianali, nei coltivatori diretti ed i piccoli imprenditori. In questi mestieri il lavoratore è necessariamente mente pensante; un lavoratore capace di interpretare le situazioni economiche e sociali, la loro evoluzione prevedibile, ed inserirsi vantaggiosamente, per se e per gli altri, nei processi evolutivi in corso con nuovi servizi e con nuovi prodotti o semplicemente migliorando i processi produttivi e la qualità dei prodotti e dei servizi esistenti senza gravare sulla spesa pubblica per la suddetta formazione. La risorsa più importante per avere una buona economia e un buon ordinamento sociale basato sul riconoscimento del ruolo del lavoratore, sul suo rispetto e sulla sua dignità, è la professionalità, l’ingegnosità, l’intelligenza, la volontà e il coraggio del lavoratore stesso.

Di Attilio Giampaoli

[1] Per un approfondimento si veda il quaderno n°1 Il risanamento di bilancio degli Enti Pubblici

IL TERMOMETRO DELL'ECONOMIA

Il termometro dell’economia

Noi possiamo farcela: come è perché

Come monitorare l’andamento dell’economia di un Paese o di un gruppo di Paesi della stessa area monetaria? Questo scritto non avrebbe ragione di essere se non fosse che il parametro attualmente utilizzato, cioè il prodotto interno lordo, (P.I.L.) è, a giudizio dello scrivente, assolutamente inadeguato allo scopo. Ho trattato del P.I.L. e dei suoi limiti in un precedente scritto[1] e pertanto rimando alla lettura del medesimo per comprendere quanto asserito.

Come procedere allora? A mio giudizio occorre sostituire il PIL con tutta una serie di altri indicatori di seguito indicati, e precisamente:

  • la propensione al risparmio;
  • la percentuale di esportazioni;
  • le giornate di permanenza di turisti stranieri;
  • il grado di dipendenza dei consumi energetici dall’estero;
  • il numero di abitazioni di proprietà;
  • intensità di copertura del Territorio da parte delle piccole banche locali;
  • entità del debito pubblico sia dello Stato (o degli Stati) sia degli altri enti locali territoriali nei quali sono suddivisi amministrativamente i vari Stati;
  • tasso di inflazione;
  • numero di artigiani; numero dei piccoli imprenditori agricoli; numero dei riparatori; numero di casalinghe;
  • grado di autosufficienza alimentare;
  • speranza di vita degli abitanti;
  • tasso di natalità;
  • percentuale di dipendenti dello Stato e degli Enti Pubblici territoriali sul totale della popolazione;
  • numero dei distretti industriali e delle reti di piccole imprese;
  • numero dei volontari cioè di coloro che si offrono nelle varie attività di volontariato per far fronte gratuitamente alle varie emergenze sociali e civili;

Il presente lavoro sviluppa alcune considerazioni già pubblicate in precedenti quaderni ai quali rimando per chi vuole farsi un’idea molto più precisa dell’argomento trattato. I quaderni ai quali mi riferisco sono: 1) la disoccupazione come contrastarla 2) il risanamento di bilancio degli enti pubblici 3) il debito pubblico dello Stato italiano: come ridurlo 4) la dignità dell’anziano 5) la libertà dell’anziano.

Propensione al risparmio: per quanto riguarda la propensione al risparmio è evidente come questa sia di fondamentale importanza poiché, un popolo di risparmiatori, graverà meno sulle finanze pubbliche in caso di difficoltà di vario ordine che, sempre, con il passare degli anni, sopraggiungono. Un popolo di risparmiatori è un popolo che sa auto amministrarsi[2] e che quindi, non solo non graverà pesantemente sulle finanze pubbliche, ma anche impedirà il sorgere di un sistema di normative sociali le quali a loro volta finiranno con l’appesantire il costo della pubblica amministrazione e dello stato sociale. Anche questi argomenti sono stati già trattati in precedenti quaderni[3].

Percentuale esportazioni, giornate di permanenza dei turisti stranieri: un indice molto importante per valutare lo stato di un’economia è la sua capacità di competere sui mercati internazionali. Ecco dunque un indicatore adatto: esportazioni procapite. Un altro indicatore per indicare l’attrattiva non sono ambientale ma soprattutto culturale di un sistema Paese, è dato dal turismo. Sono sempre più convinto che oggi nel mondo si effettuano esportazioni e si attraggono turisti non tanto per la qualità delle merci e dei servizi venduti o per la bellezza dei luoghi da visitare, ma soprattutto per quella che potremmo definire “immagine Paese”. Si va in un posto non tanto per visitarne le bellezze, quanto per osservare il modo di vivere di un’altra popolazione (aspetto culturale).

Grado di dipendenza dei consumi energetici dall’estero: E’ chiaro che questo rappresenta un punto debole del sistema economico analizzato poiché l’energia è da un lato un bene necessario e, dall’altro, i prezzi della medesima sono determinati più dai produttori che dai consumatori.

Numero di abitazioni di proprietà: il nostro Paese, come è noto, è caratterizzato da una delle più alte percentuali di proprietari della casa di abitazione. E’ questa la forma più importante di risparmio e di auto previdenza. Chi possiede la casa di abitazione potrebbe utilizzare tale patrimonio per far fronte a difficoltà economiche e finanziarie senza rinunciare al piacere di poter continuare a vivere nella casa dove si è svolta la vita sua e dei suoi cari; casa a volte da lui stesso costruita secondo esigenze sue particolari. Si tratta di monetizzare una parte dell’investimento vendendo la nuda proprietà dell’abitazione e conservandone l’usufrutto. Come già detto in una precedente ricerca[4], il ricavato della vendita della nuda proprietà può essere trasformato in un vitalizio, e quindi sgravare la Comunità dai gravosi costi rappresentati dalle pensioni sociali e dall’assistenza sanitaria.

Intensità di copertura del Territorio da parte delle piccole banche locali: le banche locali, soprattutto le piccole banche locali come le ex casse rurali e artigiane, ora Banche di Credito Cooperativo, assumono un ruolo importantissimo per favorire il risparmio, indirizzando inoltre le risorse raccolte allo sviluppo qualitativo e quantitativo, non solo economico, ma anche civile e sociale, delle realtà dove sono insediate; realtà queste strettamente legate al successo dell’attività dell’intermediario creditizio. Questo stretto collegamento che si ha nelle piccole realtà di luogo tra banca locale e sviluppo economico e civile, porta anche a migliorare la professionalità dei piccoli banchieri, ai quali non sfuggono certo le connessioni del contesto dove sono insediate, e quindi sono maggiormente in grado di valutare la bontà delle iniziative economiche chiamate a sostenere.

Debito pubblico: per quanto riguarda i debiti contratti dagli enti pubblici per sostenere la propria attività, si tratta di un fattore negativo. Innanzi tutto la somma di tali debiti andrebbe suddivisa per il numero di abitanti del Paese analizzato. Insomma occorre tenere sotto controllo il debito pubblico procapite. E’ evidente che il ruolo del debito pubblico determina nel valutare la situazione economica di un Paese un effetto esattamente contrario a quello del risparmio di cui si è detto. Con il risparmio si rinuncia a delle spese oggi per far fronte a possibili spese future. Con i debiti, da chiunque contratti, si finanziano spesso spese attuali scaricandone il prezzo da pagare sui bilanci futuri e, quindi, porteranno ad una riduzione della capacità di far fronte a spese in futuro.

Per stabilire quando detto ammontare è compatibile con la realtà economica del Paese mi viene in mente una comparazione con le tecniche di valutazione del fido applicate dalle aziende di credito alle imprese. Ebbene se un’impresa possiede capacità di rimborso allora potrà essere affidata ed ottenere finanziamenti con i quali sostenere la propria attività. Se la capacità dell’impresa non è accertabile con sicurezza allora l’aziende di credito chiederanno alle imprese garanzie patrimoniali ed applicheranno sui prestiti tassi di interesse più elevati a titolo di premio per compensare i maggiori rischi di perdita sulle somme erogate. Ecco, se un’economia è buona il lavoro svolto dai suoi abitanti e la buona amministrazione dei suoi governanti, consentiranno di far fronte al rimborso dei prestiti ottenuti. Ciò presuppone tuttavia che i prestiti ottenuti siano impiegati in modo produttivo cioè o per aumentare la ricchezza futura avviando buone iniziative economiche o per eliminare costi che altrimenti continuerebbero a gravare sui bilanci. Quindi se un’economia è buona ed il debito contratto dallo Stato e dagli altri Enti Pubblici territoriali è servito per avviare buone iniziative economiche che produrranno vantaggi nel tempo allora l’ammontare del debito non è preoccupante. Volendo elaborare un indice per comparare il peso del debito pubblico nella realtà di un Paese con quello degli altri Paesi, proporrei di calcolare il debito pubblico medio procapite.

Inflazione: per quanto attiene la governabilità del sistema economico e quindi lo stato di salute dell’economia, occorre a mio parere fare attenzione al tasso di inflazione. E’ noto a tutti come l’inflazione, ovvero la perdita di potere di acquisto della moneta legale, produce difficoltà nel valutare le nuove iniziative economiche ed anche una redistribuzione della ricchezza non sempre virtuosa: favorisce spesso le rendite a danno dell’attività produttiva.

Anche l’eccessiva quantità di dipendenti occupati nella pubblica amministrazione, sia centrale che periferica, è un indice di appesantimento nei processi operativi ed economici che spesso, invece di agevolare i comportamenti ritenuti socialmente più corretti ed utili, finisce con il rendere il sistema amministrativo troppo complesso, e quindi con il favorire l’attività di quanti si inseriscono nella funzione pubblica per trarne unicamente dei vantaggi personali. Questo non fa certamente bene all’economia né d’altronde alla qualità del sistema sociale e civile.

Numero di artigiani, numero di piccoli imprenditori agricoli, numero di riparatori, numero di casalinghe: ritengo che questi siano gli indicatori da utilizzare per quanto attiene alla misurazione della qualità dell’economia. A mio parere infatti un’economia con pochi riparatori è anche un’economia dell’usa e getta, e quindi non un’economia di qualità, con tutte le conseguenze che ciò determina: disoccupazione, spreco di risorse, danneggiamento ambientale, scarsa qualità dei prodotti destinati all’alimentazione. Quando i prodotti sono di qualità e destinati a perdurare, allora si avrà anche una schiera di riparatori che interverranno per la manutenzione dei medesimi. Insomma questo indice sta a indicare se l’economia in esame è un’economia della qualità o un’economia dell’usa e getta. A questo proposito mi viene in mente questa idea: perché non tassare di più i consumi e tassare di meno le attività produttive? Se si procedesse in tal modo si otterrebbe il risultato di favorire le produzioni di qualità e di scoraggiare quelle dell’usa e getta. Inoltre perché non agevolare i riparatori esentandoli da ogni imposta e da ogni adempimento amministrativo?

Come noto, poiché il lavoro domestico svolto dalle casalinghe non è retribuito non concorre a determinare, secondo il parametro del PIL, la ricchezza prodotta in un dato periodo nel Paese. Si tratta, ad evidenza, di un metodo di rilevazione della ricchezza prodotta e della qualità della vita sbagliato. A nessuno può sfuggire quanto importante sia per la qualità della vita il lavoro svolto dalle donne in ambito domestico. Tutta una serie di servizi alle persone che in mancanza del lavoro femminile graverebbe sui costi sociali della pubblica assistenza quali la cura e l’educazione dei minori, la cura e l’assistenza agli anziani, la cura e la manutenzione delle abitazioni, che sono altrettanti aspetti dell’economia reale, sfuggono ad ogni rilevazione statistica e mettono ulteriormente in evidenza i limiti del parametro (PIL) con il quale pretendiamo di valutare il buon andamento dell’economia. Insomma le donne che lavorano in casa e che si prendono cura della stessa e dei familiari sono per la contabilità nazionale persone nulla facenti e, peggio, persone che non danno un contributo alcuno allo sviluppo economico e civile del Paese. Quale assurdità! La famiglia, come si sa, è la cellula fondamentale della società civile; la famiglia è anche il luogo dove ci si educa al senso della responsabilità sociale e della solidarietà. Sono convinto che una sana economia debba necessariamente basarsi su sane famiglie e, le famiglie sono tali, quando a tutti i componenti delle medesime viene riconosciuto il contributo morale e materiale da essi fornito. Perché non dare un contributo alle donne che lavorando in casa (casalinghe) si prendono cura degli anziani della famiglia utilizzando parte delle risorse che l’assistenza pubblica dedica agli anziani per l’assistenza sanitaria e domiciliare? Ne acquisterebbero dignità delle persone, la qualità della vita ed anche, e questo mi fa sorridere, il PIL.

Grado di autosufficienza alimentare, speranza di vita, tasso di natalità: Anche l’autosufficienza alimentare che spesso è il presupposto per il controllo della qualità degli importanti beni destinati all’alimentazione è una caratteristica di una economia di qualità. Una buona economia è anche un’economia che assicura agli abitanti di un determinato Paese la qualità dei consumi alimentari. A questo proposito vi sono altri parametri che consentirebbero di valutare la qualità della vita e quindi indirettamente della qualità dell’economia. Mi riferisco alla speranza di vita ed al tasso di natalità. E’ evidente che queste saranno tanto maggiori quanto migliore sarà la condizione economica degli abitanti di un determinato Paese che, possedendo maggiori risorse finanziarie, possono dedicare maggior tempo alla cura della propria salute. Un Paese con basso tasso di natalità è un Paese nel quale i suo abitanti nutrono forti preoccupazioni per il futuro, evidentemente a ragione, e per la capacità che essi avranno di provvedere alle future esigenze. Chi mette al mondo figli lo fa tenendo conto della propria situazione economica e dei cambiamenti previsti negli scenari economici e sociali. Chi non mette al mondo figli non ha una grande fiducia sul futuro, sulla qualità della vita e quindi anche sull’economia che in gran parte determina gli scenari evolutivi.

Numero di distretti industriali e reti di piccole imprese: la piccola impresa ha dei vantaggi competitivi rispetto alla grande impresa e non solo svantaggi come spesso si asserisce; in una grande impresa dove lavorano 100.000 dipendenti vi sono meno “menti pensanti” di quante ve ne sono in 1.000 imprese con 100 dipendenti l’una. Inoltre la grande impresa è vincolata nella sua attività dalle caratteristiche che ha assunto il suo apparato produttivo il cui costo, dovendo essere recuperato, condiziona grandemente le scelte gestionali. Si obbietta tuttavia che la grande impresa può beneficiare delle cosiddette economie di scala. Tuttavia il tessuto delle piccole imprese, caratteristico dell’attività imprenditoriale italiana e di alcune Regioni come le Marche, ha espresso come soluzione competitiva quella dei distretti industriali, Territori questi dove si raccoglie l’insieme delle attività necessarie per svolgere con successo l’attività produttiva riferita ad alcuni prodotti ed anche le reti di piccole imprese. Con le reti le piccole imprese riescono a determinare una massa di impatto nelle proprie relazioni commerciali ed una flessibilità operativa di tutto rispetto. E’ come se fossero un’unica grande impresa, tuttavia mantengono i punti forti della piccola impresa, cioè la flessibilità, la specializzazione, la forte cultura imprenditoriale.

Numero di volontari: il numero dei volontari presenti in un determinato Paese è da un lato un indice di squilibri economici e sociali e, dall’altro, è un indice della grande energia e del forte impulso solidaristico e di responsabilità sociale che la sua popolazione sa esprimere. Ebbene un Paese dove alto è il numero di volontari è anche un Paese molto civile dove le difficoltà vengono affrontate anche con sacrificio personale. La cultura che sta alla base del volontariato è una cultura che fa buona l’economia cioè quella cultura del “rimboccarsi le maniche” che porta ad affrontare i problemi piuttosto che ad ignorarli, a rimandarli nel tempo od a scaricarli ad altri. Ebbene, come non pensare che un popolo che esprime questa cultura non sappia anche esprimere una buona economia?

Concludendo, come disse Nixon nel famoso discorso sulla dichiarazione di inconvertibilità del dollaro in oro che mise fine di fatto agli accordi di Bretton woods, una moneta è buona quando l’economia del Paese che la esprime è buona. Ecco quindi che il nostro lavoro potrebbe essere utilizzato: per comparare lo stato di un’economia di un Paese con quello di un altro Paese; per verificare i cambiamenti intervenuti nello stato dell’economia in un particolare Paese o area monetaria rispetto al passato; per valutare la solidità della moneta avente corso legale nel suddetto Paese o Paesi nei quali essa ha corso legale, per indicare gli interventi di politica economica utili al fine di migliorare lo stato dell’economia. Tutto ciò premesso mi chiedo quali siano i cosiddetti fondamentali utilizzati dalle società di rating per valutare la rischiosità dei debiti cosiddetti sovrani (cioè emessi dagli Stati). Si sente che i debiti dello Stato italiano destano una qualche preoccupazione come quelli di altri paesi europei. A me sembra che se dovessimo utilizzare i parametri sopra indicati la pagella da assegnare al sistema economico italiano sarebbe molto più generosa di quanto asserito dalle suddette società di rating. Il nostro Paese può farcela: quando la strada presa è sbagliata il modo per andare avanti è quello di tornare indietro. Dobbiamo ritornare agli insegnamenti e all’eredità culturale che ci hanno lasciato i nostri genitori, e cioè a come l’artigiano e i contadini affrontavano le difficoltà. In Italia l’eredità culturale che queste categorie di lavoratori ci hanno trasmesso è ancora molto viva, soprattutto in alcune regioni del Paese; si vedano sull’argomento i quaderni sulla cultura artigianale e il numero sulla cultura contadina. Ritengo pertanto che il nostro Paese possa farcela a superare la grave crisi finanziaria, nonché gli squilibri sociali, che questa sta provocando. Un esempio concreto delle grandi potenzialità esistenti nel nostro Paese a livello culturale è quello del centro ARTELAVORO[5], ideato e realizzato da Don Ezio, parroco di Trasanni. Si tratta di una risposta perfetta sia per risolvere il problema della disoccupazione giovanile sia per irrobustire il nostro sistema economico con il lavoro artigianale. Il suddetto centro non è stato finanziato dallo Stato o da altri enti pubblici ma dalla generosità e dall’intelligenza della popolazione che ha contribuito generosamente. Un altro esempio di quanto forte possa essere l’influenza culturale nel determinare le energie e le risorse necessarie per affrontare la crisi è dato, come già detto, dall’incredibile esercito di volontari che fa dell’Italia il Paese a più alta intensità di volontari al mondo. Un primato di civiltà e di solidarietà sociale nobilissimo di cui essere orgogliosi. Tanto per rimanere in tema, il lavoro e la fatica svolto dai volontari, non essendo remunerati, non vengono rilevati dal PIL (Prodotto Interno Lordo), il quale rileva solo le transazioni regolate monetariamente, come Voi certamente sapete rispettabilissime società di rating. Insomma il lavoro reale e quanto mai necessario per un buon ordine sociale ed economico, il volontariato, non viene rilevato ai fini della determinazione della ricchezza prodotta in un dato periodo da un Paese. Giudicate voi e riflettete sulla necessità di ripensare i parametri da utilizzare per valutare il buon andamento di un’economia.

Concludo pertanto invitando le società di rating ad un maggior approfondimento degli indicatori che possono essere utilizzati nel determinare lo stato dell’economia e ad abbandonare il metodo del prodotto interno lordo che, a mio giudizio, sta creando solo confusione ed errori di valutazione.

Di Attilio Giampaoli

[1] Per approfondimenti consultare la XII edizione del volume “Per un’Armonia dell’Economia” a pagina 61 e seguenti.

[2] Per approfondimenti consultare il quaderno n°9: “Imparare ad auto amministrarsi”.

[3] Per approfondimenti consultare il quaderno n°17: “La cultura artigianale ovvero l’artigianato ci salverà”.

[4] Per approfondimenti consultare il quaderno n°10: “La dignità dell’anziano”.

[5] Per approfondimenti consultare il quaderno n°22: “L’artigiano nell’era della tecnologia avanzata”.